Pasuch in Europa‎ > ‎

La grande migrazioni italiana


Di Bruno Faciotti


In Italia si può dividere l’emigrazione in due fasi: la grande emigrazione americana (fine anni 1800 fino agli anni ’30 del 1900) e l’emigrazione interna all’Europa (dagli anni ’50 in poi).

 A) La grande migrazione americana

 Un emigrato risponde ad un ministro italiano che si chiedeva perché tanti Italiani lasciavano la propria nazione: «Che cosa intende per nazione, Sig. Ministro? È una massa di infelici? Piantiamo grano, ma non mangiamo pane bianco. Coltiviamo la vite, ma non beviamo vino. Alleviamo animali, ma non mangiamo carne. Ciò nonostante voi ci consigliate di non abbandonare la Patria? Ma è una Patria la terra dove con si riesce a vivere del proprio lavoro?».

Causa dell’emigrazione: la diffusa povertà di vaste zone d’Italia e la voglia di riscatto di intere fasce della popolazione. L’emigrazione fu un grande “alleggerimento” di pressione demografica.

Nel 1850, su 1800 comuni del Regno di Napoli, 1500 erano senza strade. In molte regioni non conoscevano il denaro; gli scambi si facevano in natura, come ai tempi degli antichi Romani. “Lo stipendio di un bracciante era inferiore a quello di un asino”.

La malaria uccideva 40.000 persone all’anno; la pellagra, 100.000. Tra il 1884 e il 1887 il colera aveva ucciso 55.000 persone. Le statistiche parlano di 400.000 morti all’anno. Metà erano bambini con meno di cinque anni, perché il cibo era scarso, l’igiene quasi inesistente e la visita ad un medico a prezzi proibitivi. Dei 3672 lavoratori nelle miniere siciliane di zolfo, solo 203 furono dichiarati sani a abili al servizio militare. Il resto era tutto di ammalati.

Di 30 milioni di abitanti, 21 milioni erano contadini. L’aratro era ancora come quello usato da Cincinnato 2000 anni prima. Intanto l’Inghilterra, la Francia e la Germania erano già entrati nell’era industriale. L’Italia appariva un paese di miserabili analfabeti. Solo il Piemonte e la pianura padana presentavano un po’ di progresso agricolo.

Nel 1861 solo 600.000 potevano votare: erano quelli che avevano un patrimonio o una rendita. Erano i “Signori”. E solo i benestanti potevano essere votati. E così la popolazione non aveva rappresentanti al Congresso. I contadini non avevano proprietà; vivevano di lavoro da schiavi. Le masse popolari non erano considerate popolo. Quando si parlava di popolo, si intendeva la borghesia: i funzionari, i commercianti, gli avvocati, i medici, ecc. Gli altri – ed erano i quattro quinti – non contavano niente. Gli incarichi politici erano imposti dal Re.

Centinaia di migliaia di Italiani vivevano ancora in grotte o capanne di pali e fango, senza finestre o in buchi scavati nella roccia. Secondo alcuni dati del 1879, lì vivevano in media 10 persone per stanza. Le terre appartenevano a chi non aveva amore per i campi; chi lavorava i campi era un servo o discendente di schiavi. C’erano grandi proprietà della borghesia, ottenute dai “notabili” attraverso l’usurpazione di terre sottratte alla Chiesa.

Nelle proprietà i contadini erano sfruttati; non avevano nessun legame con la terra. Per questo c’era una enorme fame di terra, non solo per la volontà di possederla, ma anche per il desiderio di uscire dal nulla, di conquistare una dignità.

Fu così che accolsero con entusiasmo Giuseppe Garibaldi, perché si aspettavano una distribuzione delle terre e si gettarono con violenza sulle proprietà dei “galantuomini”, i latifondisti, ma furono bloccati e picchiati.

Con questa situazione, con le autorità insensibili alle necessità delle masse popolari, incominciarono i primi movimenti migratori. I contadini fuggivano da un Paese ingrato, che non era mai stato la loro vera patria. Tra il 1860 e il 1865 ci furono rivolte e massacri nel meridione d’Italia. Molti vescovi furono espulsi o messi in carcere. Qui incomincia il periodo della lunga emigrazione.

Destinazioni: America del Sud (Brasile, Argentina e Uruguay) e America del Nord (Stati Uniti e Canada): paesi con grandi estensioni di terre non esplorate e necessità di manodopera. Viaggi molto spesso senza progetto di ritorno in patria.

Alcuni ripetevano: “In queste condizioni, dunque, l’emigrazione non era solo stimolata dal governo, ma era anche una soluzione di sopravvivenza per le famiglie. Così è possibile capire l’uscita di 7 milioni di Italiani nel periodo tra il 1870 e il 1920, su una popolazione totale di 33 milioni.

 Due i periodi dei grandi flussi migratori: il primo negli anni 1875-1915 e il secondo dopo la prima guerra mondiale (anni 1920-1929).

Attualmente gli Stati Uniti, il Brasile e l’Argentina hanno 65 milioni di discendenti di emigrati italiani. Una buona parte di essi andarono in Uruguay, dove nel 1976 i discendenti erano 1.300.000 ( il 40% della popolazione).

 B) L’emigrazione in Brasile

 1 - Le origini
 
La grande emigrazione ebbe inizio negli anni 1875-1876, e nel periodo di circa 50 anni arrivarono in Brasile circa un milione e mezzo di Italiani. Essi furono protagonisti in molte delle trasformazioni del tempo: dall’abolizione della schiavitù all’espansione dell’agricoltura, dal consolidamento dell’economia di esportazione alla incipiente industrializzazione.

I primi emigranti a lasciare l’Italia furono soprattutto i Veneti, circa il 30% del totale, seguiti dagli abitanti della Campania, Calabria e Lombardia. Se i Veneti erano più biondi rispetto alla maggioranza degli Italiani ed erano piccoli proprietari, fittavoli e mezzadri (per cui la possibilità di accesso alla proprietà della terra era uno stimolo decisivo per intraprendere i rischi del viaggio), gli emigranti del Sud invece erano di capelli neri, ma poveri e analfabeti, generalmente contadini che non disponevano di nessuna economia ed erano chiamati braccianti.

Due i fattori che spinsero le classi dirigenti brasiliane a una politica di attrazione di manodopera dall’Europa:

1) l’esigenza di popolare un territorio sterminato e a bassissima densità demografica, mettendo a coltivazione le terre, sottraendone il controllo agli indios e rendere più sicuro il modello di crescita delle esportazioni di caffè.

C’era anche un altro fattore: la volontà politica di “inbianchimento” della popolazione, per il motivo che gli schiavi erano tutti “neri”.

L’arrivo degli emigranti divenne fondamentale perché dopo il 1850, costretto da Londra, il Governo brasiliano deliberò la fine della tratta dei neri (Legge Eusebio de Queirós). Questo fu il primo passo per l’abolizione della schiavitù che si realizzò con la Legge Aurea della Principessa Isabel nel 1888.

Il governo brasiliano capì che molti emigranti dall’Europa stavano andando negli Stati Uniti, in Australia e nella stessa America del Sud, portando nel bagaglio il sogno di una vita migliore; per questo cercò di attrarre gli emigranti nel Brasile.

2) Un ulteriore elemento fondamentale fu il passaggio in Brasile dalla monarchia alla repubblica e l’assunzione del potere da parte dei Padroni del caffè.

In Italia le classi dirigenti spinsero l’emigrazione verso il Brasile, perché nazione in cui si poteva ottenere terreni da coltivare. Ecco perché gli emigranti erano quasi tutti contadini. Ma per la manodopera del caffè c’erano più problemi. Gli emigranti erano lavoratori dipendenti. Ad essi si prospettava la possibilità di risparmiare abbastanza per comperarsi un terreno proprio.

Il governo di Rio, per assicurarsi la permanenza dell’emigrato, stimolò l’arrivo di nuclei familiari più che dei singoli, ricorrendo all’arma della copertura dei costi dell’attraversata dell’oceano (viaggio gratis).

L’incentivo del viaggio gratuito favorì in Brasile l’opera di ditte, compagnie e agenti, e consentì l’espatrio anche a famiglie molto povere, che non potevano pagarsi il viaggio.

La prima ondata di emigranti italiani fu nel 1874, però l’immigrazione fu resa officiale nel 1875. La traversata dell’Atlantico, su vecchie navi, era drammatica, un salto nel buio: tutto poteva andare bene, più o meno. Erano comuni le morti lungo la traversata. Spesso succedevano anche naufragi. In qualche modo, i 46 giorni di viaggio in vecchie carrette di mare costituivano solo angoscia e paura.

Nel settore agricolo l’immigrazione non scardinò, come desideravano alcuni dirigenti più illuminati del governo, il sistema latifondista. La crescita delle piccole e medie proprietà fu limitata alle aree di colonizzazione, cioè quelle più marginali, mentre l’arrivo in massa degli emigrati consentì ai fazendeiros di mantenere metodi usati quando c’era la schiavitù, sia nei sistemi produttivi che nei rapporti sociali. Questo fu la causa di una grande fuga verso i centri urbani, favorendo la modernizzazione e lo sviluppo delle città e delle megalopoli (creando la società di massa).

2 – Le due fasi dell’esodo

La prima fase: 1887 – 1902: 900.000 emigranti italiani (il 30% erano soprattutto del Veneto, Trentino e Friuli. Il Brasile divenne per eccellenza l’«America» dei sogni.

Seconda fase: dopo il 1902 il flusso si ridusse di molto, anche a causa della decisione del governo italiano di proibire l’emigrazione sussidiata (con il viaggio pagato), in seguito alle denunce circa le drammatiche condizioni degli Italiani, equiparati a “schiavi bianchi” nelle fazendas (tra il 1902 e il 1929 solo 306.000 emigrati).

Ma il motivo più importante era la crisi di sovrapproduzione del caffè che determinò un ulteriore inasprimento delle condizioni di vita e di lavoro nelle piantagioni. Nel periodo fra le due guerre mondiali il flusso calò ulteriormente. In seguito la migrazione cambiò e divenne più qualificata: operai di fabbrica, tecnici e operai specializzati. Lo Stato di São Paulo ospitò oltre il 70% degli Italiani presenti in Brasile.

 3 - La colonizzazione agricola

 
L’acquisto delle terre non fu facile. Ma grazie alla volontà ferrea, la maggior parte degli immigrati uscì vittoriosa nella vita e divennero proprietari e alcuni raggiunsero una vita agiata.

Quando gli immigrati arrivavano, erano trasferiti gratis dal porto di sbarco alle terre da colonizzare (chiamate “nuclei”). Ad essi venivano concessi tra i 25 e i 60 ettari, solamente alle famiglie, e dovevano riscattarli a rate a partire dal secondo anno, cioè dopo il primo raccolto.

I coloni ricevevano una casa provvisoria, sussidi alimentari, attrezzi agricoli e sementi da rimborsare in seguito. Nel primo anno, per garantire il primo mantenimento, gli uomini delle colonie governative venivano impiegati in lavori pubblici (es. costruzione di strade) e venivano dilazionate le rate. Ci fu molta perdita di denaro pubblico.

La famiglia colonica si assumeva l’obbligo di disboscare una parte del lotto e preparare il terreno per la coltivazione, costruire la propria abitazione e aprire strade e sentieri per delimitare i confini della proprietà.

Difficoltà; la vegetazione esuberante; l’incontro–scontro con gli Indios. L’isolamento dei nuclei creò problemi di assistenza sanitaria, le scuole rimasero rare; le grandi distanze dai mercati e l’impraticabilità delle strade ostacolarono il commercio dei prodotti. Ma in fondo c’era una comoda economia di sussistenza.

Le grandi distanze tra centri abitati e la stessa provenienza fecero sì che si conservassero le tradizioni, usi e costumi delle regioni di origine. I valori: la famiglia, numerosa e patriarcale e il clero italiano, che cementava la comunità ed esercitava un certo controllo morale. Da qui però anche il fenomeno dell’endogamia (matrimonio tra consanguinei) e la permanenza a lungo dei dialetti.

4 – La fazenda

 
Relativamente pochi furono coloro che ebbero la possibilità di comperarsi la terra (fu più facile negli anni ’30, quando le difficoltà del settore fecero abbassare i prezzi del terreno). La maggior parte andò a lavorare nelle fazendas.Qui “risparmiare” per comperarsi terra era impossibile.

La paga degli immigrati era quasi esclusivamente in natura, cioè i prodotti del terreno a loro affidato dai padroni, e proporzionale al numero di piante che si coltivavano e al raccolto i caffè.

L’abitazione: la casa, di rami e fango (solo più tardi in legno e muratura), faceva parte  della paga; come pure l’allevamento di animali da cortile o coltivazioni di generi di sussistenza tra i filari di caffè o in piccoli terreni appositi. Si poteva vendere ciò che avanzava. I salari reali erano inferiori a quelli contrattati o dati in ritardo.

Multe arbitrarie e buoni per acquistare, a prezzi maggiorati, alla spaccio della piantagione, cose che l’immigrato non poteva produrre. Da qui l’indebitamento sempre più grande dei coloni nei riguardi del padrone.

 La vita nella fazenda

 - Segregazione, disciplina con la frusta

- violenza e molestie sessuali.

La volontà del proprietario o dell’amministratore era legge e non esisteva quasi libertà personale. Un debito poteva mettere in ostaggio qualche famigliare.

- L’assistenza sanitaria, l’istruzione e i conforti religiosi o risultavano assenti o assicurati con grande parsimonia.


Tutti i membri delle famiglie dovevano lavorare: anche le donne e i bambini in tenerissima età. Le distanze tra le piantagioni, la solitudine impedirono rivolte sociali, anche se ci furono degli scioperi.

La conseguenza spesso era l’abbandono della piantagione alla fine dell’anno agricolo. Come soluzione, allora era la ricerca di una fazenda con condizioni migliori, o il ritorno in patria o il trasferimento nei centri urbani (specialmente São Paulo).
 
C) La Chiesa e l’emigrazione
 
Alla fine del 1800 la situazione degli emigrati diventa sempre più grave. Propaganda Fide accumula informazioni sui flussi migratori e pensa a come seguirli.

L’11 aprile 1887 autorizza le parrocchie nazionali, chiamate anche personali o linguistiche,  negli Stati Uniti. Queste devono integrarsi nel tessuto diocesano, ma hanno giurisdizione non su un territorio (quartiere), ma su una comunità di immigrati.

Propaganda Fide si accorge che per gli immigrati italiani non ci sono associazioni che li seguano e dunque non possono costruire chiese o luoghi di incontro. Pochi sono i sacerdoti italiani che li assistono.

Si affida il problema a Mons. Giovanni Battista Scalabrini, vescovo di Piacenza, che ha fondato una congregazione religiosa per assistere gli italiani nelle Americhe e gestire un collegio per preparare i missionari addetti.

Papa Leone XIII ne parla nella Rerum Novarum (15 maggio 1891). L’interesse della Chiesa per il fenomeno cresce.

Mons. Scalabrini opera anche affinché il governo italiano regoli gli agenti di immigrazione: crede nel diritto e alle necessità di emigrare, ma teme la disperazione degli emigranti ai quali è stato promesso un lavoro inesistente (Legge del 1902).

Scalabrini ottiene maggiori risultati nei luoghi di arrivo grazie all’impegno dei suoi missionari e all’aiuto fondamentale delle congregazioni femminili (Suore Apostole del S. Cuore di S. Francesca Saveria Cabrini, le Zelatrici del S. Cuore di Gesù di Clelia Merloni e molte altre suore, come le Salesiane, le Dorotee, quelle della Venerini, le Suore della Misericordia della Rossello e quelle di D. Carlo Steeb di Verona, le suore di d. Orione e di suor Paolina (Amabile Visentainer), una trentina emigrata in Brasile: scuole e ospedali. Quando Scalabrini muore, lascia 40 case nelle Americhe.

Continua la sua opera, in modo diverso, Mons. Geremia Bonomelli, vescovo di Cremona, che fonda l’Opera di assistenza agli operai italiani in Europa e nel Levante. L’iniziativa non è sponsorizzata dalla Santa Sede, che anzi diffida del Bonomelli.

Pio X riordina tutta l’opera di assistenza del clero e nel 1912 istituisce il primo Ufficio della Curia Romana per l’emigrazione.

Comments